Abstract
In anni recenti, l’idea che gli stati nazionali debbano scegliere attivamente le persone a cui concedere accesso legale al proprio territorio e mercato di lavoro ha indotto i governi di vari paesi europei ad adottare nuovi meccanismi selettivi basati su sistemi a punti. Ispirati a modelli nordamericani, questi dispositivi sono stati implementati, o sono attualmente in discussione, nel contesto di dibattiti di portata più generale; dibattiti che, a loro volta, sono permeati da argomenti utilitaristici e caratterizzati da una contrapposizione discorsiva tra migranti “utili”, portatori di livelli alti di capitale umano, e migranti poveri, percepiti come “peso” economico. Immagini dicotomiche di questo tipo hanno una lunga tradizione in Europa, com’è dimostrato da un ampio spettro di esempi storici, a partire dalle ordinanze bassomedievali contro i “vagabondi”, per arrivare alle politiche mercantiliste volte ad attrarre artigiani specializzati.Tuttavia, tali esempi mettono in luce che il presupposto centrale di questo approccio – l’idea che attraverso un sistema di privilegi legali sia possibile giungere ad una regolazione dei flussi migratori favorevole alla crescita economica – si è per lo più rivelato illusorio, nella misura in cui non tiene conto dell’agency autonoma dei soggetti migranti. Lungi dal rappresentare una soluzione, gli impianti giuridici che contemplano diritti differenziati – variabili a seconda del supposto “valore” che determinati individui incorporerebbero per la “nazione” – tendono a degradare i migranti al rango di “mezzi” e ad innescare una progressiva erosione del concetto di uguaglianza.